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Dic
27

La Terra della Camelot d'Africa

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camelot dafrica

La città di Gondar fu fondata dall’imperatore Fasilidas nel 1636 e fu capitale d’Etiopia per i successivi due secoli.

Il soprannome di Camelot d’Africa le deriva dalla suggestione che si prova camminando tra le rovine di castelli e fortezze del XVII-XVII secolo, fatti costruire dagli imperatori etiopi che scelsero la fertile terra di Gondar come luogo per stanziare la nuova capitale. Delle costruzioni che costituivano questa cittadella di 70.000 metri quadri, racchiusi da un’alta cinta muraria, rimangono oggi solo le vestigia, a lasciar intuire un’antica vitalità politica, economica e culturale.

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Dic
19

Thomas Sankara e il sogno africano

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thomas-sankara“L’Africa agli africani!”, urlava a un mondo sordo Thomas Sankara alla metà degli anni Ottanta. La guerra fredda era agli sgoccioli, le speranze sorte dopo l’affrancamento dal dominio coloniale – il 1960 era stato dipinto come l’anno dell’Africa tra proclami e belle parole – erano state ormai strozzate da decenni di sfruttamento economico, disarticolazione sociale e inerzia politica. Le multinazionali invadevano le ricche terre d’Africa, mentre gli Stati del Nord del mondo imponevano condizioni commerciali che impedivano lo sviluppo dei Paesi africani, schiacciati tra debito estero e calamità naturali. Il 4 agosto 1983, in Alto Volta, iniziava l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Sankara, capitano dell’esercito voltaico giunto al potere con un colpo di stato incruento e senza spargimento di sangue. Il Paese, ex colonia francese, abbandonò subito il nome coloniale e divenne Burkina Faso, che in due lingue locali, il moré e il dioula, significa “Paese degli uomini integri”. Ed è dall’integrità morale che Sankara partì per tagliare i ponti con un triste passato e con deprimente presente.

Pochi dati illustrano quanto grave fosse la situazione: tasso di mortalità infantile del 187 per mille (ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno), tasso di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti. “Non possiamo essere la classe dirigente ricca in un Paese povero”, era solito ripetere Sankara, che visse un’infanzia di miseria (“Quante volte i miei fratelli e io abbiamo cercato qualcosa da mangiare nelle pattumiere dell’Hotel Indépendance”) e povero, come gli altri burkinabè, è sempre rimasto. Le auto blu destinate agli alti funzionari statali, dotate di ogni comfort, vennero sostituite con utilitarie, ai lavori pubblici erano tenuti a partecipare anche i ministri. Sankara stesso viveva in una casa di Ouagadougou, la capitale del Paese, che per nulla si differenziava dalle altre; nella sua dichiarazione dei redditi del 1987 i beni da lui posseduti risultavano essere una vecchia Renault 5, libri, una moto, quattro biciclette, due chitarre, mobili e un bilocale con il mutuo ancora da pagare. “È inammissibile”, sosteneva, “che ci siano uomini proprietari di quindici ville, quando a cinque chilometri da Ouagadougou la gente non ha i soldi nemmeno per una confezione di nivachina contro la malaria”.

sankaraaaa

Negli stessi anni i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani anni luce dai bisogni quotidiani della popolazione. Per esempio il presidente della Costa d’Avorio, Felix HouphouëtBoigny, aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio su ghiaccio per i propri figli. Quando alcuni capi di Stato si offrirono per donare a Sankara un aereo presidenziale, la risposta fu che era meglio fare arrivare in Burkina Faso macchinari agricoli. E la terra burkinabè non è mai stata particolarmente fertile, inaridita dall’Harmattan, il vento secco proveniente dal deserto del Sahara che lambisce i confini settentrionali del Paese. Per ridare impulso all’economia si decise di contare sulle proprie forze, di vive re all’africana, senza farsi abbagliare dalle imposizioni culturali provenienti dall’Europa: “Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per anni”. “Consumiamo burkinabè”, si leggeva sui muri di Ouagadougou, mentre per favorire l’industria tessile nazionale i ministri erano tenuti a vestire il faso dan fani, l’abito di cotone tradizionale, proprio come Gandhi aveva fatto in India con il khadi. Le magre risorse vennero impiegate per mandare a scuola i bambini e le bambine – nel 1983 la frequenza scolastica era attorno al 15% – e per fornire cure mediche ai malati, organizzando campagne di alfabetizzazione e di vaccinazione capillare contro le infermità più diffuse come la febbre gialla, il colera e il morbillo.

L’obiettivo era di fornire 10 litri di acqua e due pasti al giorno a ogni burkinabè, impedendo che l’acqua finisse nelle avide mani delle multinazionali francesi o statunitensi e cercando finanziamenti che fossero funzionali allo sviluppo idrogeologico del Paese, non al profitto di pochi uomini d’affari. Il Burkina Faso divenne un esempio per le altre nazioni, governate da élite corrotte e supine ai dettami provenienti dagli istituti economici internazionali. Se un piccolo Paese, condannato anche dalla geografia (il deserto avanzava verso sud di sette chilometri all’anno mangiandosi campi coltivati; esiste un solo corso fluviale e non c’è alcuno sbocco sul mare) riusciva a levare il proprio grido di dolore e di insofferenza e a dimostrare che i problemi che affliggevano l’Africa si potevano risolvere, cosa avrebbero potuto fare Paesi con immense risorse naturali? Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente.

thomas-sankara-by-romano-martinoQuando i giovani africani cominciarono a chiedere ai propri governanti di seguire l’esempio di Sankara, il complotto prese forma e coinvolse chi, in Burkina Faso, in Africa e in Europa, non poteva tollerare la sua indisciplina e la sua semplicità. In quattro anni Sankara aveva invitato i Paesi africani a non pagare il debito estero per concentrare gli sforzi su una politica economica che colmasse il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale. Dominazione che era anche culturale: “Per l’imperialismo”, affermava, “è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”. Ecco così spiegato l’impulso dato al Festival Panafricaine du Cinéma de Ouagadougou (Fespaco), la più importante rassegna continentale, con il fine di sviluppare la cinematografia locale a scapito di quella europea, uno dei tanti strumenti per legittimare la superiorità dei “bianchi” e l’inferiorità degli Africani. Nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, Sankara espresse in modo molto semplice perché il pagamento del debito doveva essere rifiutato: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”. Sempre a Addis Abeba, Sankara invocò il disarmo, proponendo ai Paesi africani di smettere di acquistare armi e di dissanguarsi in dispute fomentate dall’estero per protrarre l’arretratezza e la dipendenza del continente. L’invito era di adottare misure a favore dell’occupazione, della tutela ambientale, della pace tra i popoli, della salute. A New York, qualche mese prima, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara aveva tuonato contro l’ipocrisia di chi fornisce aiuti ai Paesi in via di sviluppo (mentre per altre vie si inviano armi) e contro l’egoismo di chi, per esempio, si rifiuta di investire nella ricerca contro la malaria – che in Africa provoca ogni anno milioni di morti – solo perché è una malattia che non riguarda i Paesi del nord del mondo. “Ci sentiamo una persona sola con il malato che ansiosamente scruta l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti di armi. […]

Quanto l’umanità spreca in spese per gli armamenti a scapito della pace!”. Sankara espresse la convinzione che per eliminare i lasciti coloniali fosse indispensabile avviare un processo di unione di tutti gli Stati (dal Maghreb al Capo di Buona Speranza) del continente, che doveva diventare un’entità politica coesa e rispettata sul piano internazionale: “Mentre moriamo di fame e nel nostro Paese ci sono migliaia di disoccupati, altrove non si riescono a sfruttare le risorse della terra per mancanza di manodopera. Se ci fosse maggiore cooperazione, potremmo arrivare all’autosufficienza alimentare e non dovremmo più dipendere dagli aiuti internazionali”. Primo passo era la fine dell’apartheid in Sudafrica, dove la minoranza “bianca” godeva in realtà del sostegno economico dei Paesi occidentali. Sankara ebbe parole di rimprovero per tutti, a partire da François Mitterrand: “Che senso ha organizzare marce contro l’apartheid, mentre si producono e si vendono armi al Sudafrica?”. Forse non è un caso che Sankara venne ucciso quattro giorni dopo che a Ouagadougou si era tenuta una Conferenza panafricana contro l’apartheid. Il “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè, si è sacrificato dimostrando che è possibile rispondere, all’africana, ai problemi dell’Africa, con chiarezza e talvolta ingenuità, come quando chiese che “almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca spaziale sia destinato a progetti per salvare la vita umana”. Dinanzi alle Nazioni Unite Sankara liberò davanti al mondo intero, ponderando con attenzione ogni singola parola, il grido di dolore di miliardi di esseri umani che soffrono sotto un sistema crudele e ingiusto: “Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.

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Dic
17

La Terra della leggenda della Regina di Saba e di Re Salomone

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Regina di Saba e Salomone

L'Etiopia è la terra che - si dice - custodisca, ad Axum, l'Arca dell'Alleanza, o Tabernacolo, contenente le Tavole della Legge (in amarico Tabot).

Per gli etiopi la leggenda della regina di Saba, antico regno che l'archeologia moderna situa in Etiopia o in Yemen,  rappresenta il mito fondamentale della loro civiltà. Gli arabi la conoscevano come la regina Bilquis, gli etiopi la chiamavano Macheda, per gli ebrei e i cristiani è la regina di Saba.

La storia tramanda che la regina, sentendo decantare la saggezza del re Salomone, volle fargli visita per conoscerne la saggezza, e ne rimase affascinata.

Dalla sua unione con re Salomone nacque Menelik, il cui significato intrinseco è "Figlio dell'uomo saggio" che portava nel sangue le tracce di una ascendenza divina; da qui nasce il fatto che gli Etiopi siano una un popolo eletto.
Menelik unificò le popolazioni dell'Etiopia settentrionale, costituendo il regno di Axum (I-XII dc) e assumendo il titolo imperiale di Negus Neghesti, re dei re. Oggi in Etiopia i Falasha, o ebrei etiopi, sostengono di essere i suoi diretti discendenti.
Una volta adulto Menelik volle far visita al padre Salomone e, quando fece ritorno ad Axum, trafugò o gli fu affidata, l'Arca dell'Alleanza. 
Essa non arrivò con Menelik ad Axum, ma impiegò qualche secolo, dopo un lento peregrinare in terra d'Egitto. Questo avvenimento è ricordato con i lenti ed esasperanti riti che la Chiesa Copta etiopica celebra in onore dell'Arca in occasione di Genna e Timkat che sono il Natale e l'Epifania del rito copto.

Le feste di celebrazione di queste due ricorrenze fanno rivivere lo splendore di quelle che furono le corti di Gerusalemme e di Axum che, nel periodo di massima espansione, avvenuta con la vittoria sul Regno di Meroé (350 d.c), divenne la potenza egemone nell'Africa orientale, giungendo a controllare Etiopia, Eritrea, Sudan settentrionale, Egitto meridionale, Gibuti, Somalia occidentale, Yemen e il sud dell'attuale Arabia Saudita, per un totale di 1,25 milioni di km²

Oggi, in un piccolo edificio di granito sulla proprietà della chiesa di Santa Maria di Sion, nell’antica capitale Axum, un monaco, conosciuto come il Custode dell’Arca, unica persona autorizzata ad entrare e uscire dall’edificio, custodisce il prezioso Tabernacolo.

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Dic
26

La Terra dove è nato il caffè

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caffè

Nel XIV secolo il caffè fu introdotto dall’Etiopia nello Yemen, dove acquisì la denominazione araba di "qahweh", forse la forma colloquiale di "Kaffa", regione etiope dove furono scoperte le prime piante.
Tra le varie leggende sulla scoperta del caffè, c’è quella delle capre ballerine. Secondo la tradizione, Kaldi, un giovane pastore di Kaffa, fu sorpreso nel vedere le sue capre, pigre e sonnolenti, rinvigorirsi improvvisamente dopo aver masticato certe bacche. Anche Kaldi le assaggiò e le trovò stimolanti. La leggenda continua con l’arrivo di un monaco che, vedendo il pastore così allegro, volle provare anche lui le bacche e, quella notte, durante le estenuanti preghiere, notò che la sua mente era più attenta e acuta di prima. Così il monaco trasmise il segreto del caffè ai confratelli e ben presto a tutti i monaci dell’Etiopia.
Per molti secoli il caffè fu mangiato e non bevuto. Le sue bacche erano assunte sia intere che sminuzzate e mescolate al "ghi" (burro bollito), una pratica ancora in uso nelle terre remote delle provincie di Kaffa e Sidamo. La pratica di ricavare un infuso dai chicchi arrostiti fu introdotta solo nel XIII secolo. Da allora si è diffusa rapidamente in tutto il mondo, arrivando, in particolare, in Europa, intorno alla fine del 1600.
E' davvero molto affascinante assistere, oggi, in molti villaggi dell'interno e spesso nelle famiglie in città, alla tradizionale cerimonia del caffè.

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Dic
19

Il governo Etiope sfratta le tribù dell'Omo

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Diverse tribù della bassa valle dell’Omo hanno inviato testimonianze preoccupanti sulle manovre del governo etiope, che sta distruggendo le coltivazioni delle comunità per forzarle a lasciare le loro terre e a trasferirsi nelle aree di reinsediamento designate. I più colpiti dal furto della terra sono i pastori Suri, Bodi e Mursi, e i cacciatori-raccoglitori Kwegu. Molte famiglie sono disperate perchè non hanno più sorgo. Anche i loro terreni da pascolo vengono distrutti rapidamente: il governo continua infatti ad affittare le loro terre a imprenditori agricoli che le convertono in piantagioni di canna da zucchero e palma da olio.

Una donna Mursi racconta quello che sta accadendo:

Alcune comunità bodi sono già state trasferite in campi contro il loro volere. “Si stanno prendendo la nostra terra con la forza. I bulldozer hanno spianato persino gli orti dove stavamo coltivando il nostro cibo. Sono andati dritti dove stava crescendo il nostro sorgo”, ha raccontato un uomo Bodi. Ai Mursi è stato detto di vendere il bestiame e che saranno spostati nei campi di reinsediamento entro la fine di quest’anno. “Ieri sono andata al fiume Omo. Sono andata per prendere il grano, ma non c’era più niente”, ha raccontato una donna. “I miei granai sono stati distrutti (dai bulldozer). Non mi piace quello che stanno facendo. Quando sono arrivata là, ho pianto. Le nostre riserve di grano non c’erano più. Adesso avremo grossi problemi. Non sappiamo cosa fare. Forse moriremo”.

L’accesso al fiume è stato bloccato poiché il governo continua a spianare terre e a costruire strade che portano alle piantagioni di canna da zucchero del progetto statale Kuraz Sugar Project. Il governo sta anche affittando ampie aree di terra tribale a investitori nazionali e stranieri. Nella parte occidentale del Parco Nazionale dell’Omo, i Suri stanno protestando contro una compagnia malese che sta piantando palma da olio nelle migliori terre da pascolo della tribù. Secondo quanto dichiarato da un uomo Suri, “il governo ha mandato dei soldati che per due settimane hanno cercato di impedire che i Suri seminassero i loro campi. Lo hanno fatto per ridurre alla fame le persone e far accettare il trasferimento nei siti di reinsediamento. La maggior parte dei Suri ha paura ad andare a coltivare i campi. Solo in pochi lo hanno fatto. In un villaggio vicino alla piantagione malese sono state bruciate tre case insieme alle riserve di grano che contenevano. Sono stati quelli che lavorano nelle piantagioni”. Human Rights Watch ha recentemente pubblicato un nuovo rapporto, estremamente critico, dal titolo ’Che cosa succederà se arriverà la fame?’ Il dossier denuncia e documenta le azioni delle forze di sicurezza del governo, che stanno obbligando le comunità a trasferirsi dalle loro terre con la violenza e l’intimidazione, minacciando il loro intero stile di vita senza offrire nessun risarcimento né modalità di sussistenza alternative.

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