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Le Nazioni Unite stimano che il 35% delle donne del mondo ha subito violenze, fisiche o sessuali, nel corso della propria esistenza. Un dato drammatico che deve farci riflettere tutti sui tanti mali del nostro mondo. Se poi i carnefici sono per oltre il 70% le persone più vicine alle donne (mariti, compagni e familiari) il quadro assume i tratti di una vera e propria emergenza.
La violenza degli uomini sulle donne ha antiche radici e sopravvive, seppur con molte eccezioni, negli ambienti in cui povertà, oppressione e scarsa educazione regnano sovrane. Come ebbe mondo di sottolineare negli anni '80 Thomas Sankara, che nella sua rivoluzione pose le donne al centro di ogni processo, "L'uomo, non importa quanto oppresso sia, ha un altro essere umano da opprimere, la moglie". La situazione è ancora, amaramente, molto simile.
A pagare di più sono le donne del Sud-Est asiatico (oltre 58%), dei paesi più ricchi (41,2%) dell'America del Nord (40,5%) e dell'Africa (40,1%).
 
La Giornata Mondiale di riflessione ed iniziative è stata istituita nel 1999dalle Nazione Unite su pressione dei movimenti e delle associazioni delle donne, che hanno voluto ricordare il sacrificio delle sorelle domenicane Patria, Maria Argentina e Antonia Maria Mirabal, assassinate dal regime di Trujillo il 25 novembre 1960.
 
Le donne nel mondo pagano e hanno sempre pagato un tributo speciale. Da quando erano accusate di stregoneria, torturate e bruciate ad oggi in cui sono stuprate a migliaia durante i conflitti.  Discriminate nei loro diritti (salvo rarissime eccezioni), strette tra le responsabilità della famiglia e quella dei figli,  le donne sopportano, spesso da sole, il peso della povertà, della sussistenza e della sopravvivenza. Sono picchiate, sfruttate e stuprate, con modalità diverse, in ogni angolo del pianeta. 
Subiscono talvolta le sottili e subdole violenze degli uomini che giurano di amarle e altre volte veri e propri martiri dai potenti di turno.
Sono comprate, vendute e ammazzate. In molti luoghi senza che per loro vi sia alcuna giustizia.

Certo le giornate servono a riflettere, a comunicare emozioni ad intraprendere iniziative. Il lavoro però deve essere fatto, dai governi e dalle istituzioni, ogni giorno, ogni minuto. Un lavoro che parte dalla presenza delle donne nei posti di comando e di governo (ancora troppo poche - nel 2014 solo il 7% dei capi di stato o di governo erano donne e solo il 41% dei paesi del mondo era stato governato almeno un giorno da una donna), dal riconoscimento dei diritti, dalla lotta senza quartiere alla tratta di donne ai fini sessuali (tra cuiquella nigeriana in testa), alla ferma condanna (con azioni di forza) dello stupro come arma di guerra e delle mutilazioni genitali femminili e alla prevenzione delle più subdole violenze domestiche.

Ma incidere sulle dinamiche che conducono alla violenza sulle donne significa anche sottolineare e far risaltare le imprese quotidiane delle donne nel mondo (sempre maggiori ed in ogni campo), perchè come ho avuto modo di sottolineare parlando del Ruanda, si ha l'impressione che dove gli uomini hanno fallito, sono le donne a prendere in mano la situazione

firmasancara.org

Lunedì, 23 Novembre 2015 09:29

Burundi, facciamo attenzione

La storia ci ha insegnato che sottovalutare segnali importanti ci ha condotto spesso a piangere, dopo, morti che avremmo potuto evitare. E' ancora recente il ricordo di molti per quanto accadde in Ruanda solo vent'anni fa. Perfino durante i giorni più caldi, quando le teste rotolavanoo per strada, quando i macete amputavano le mani, quando gli stupri erano il gioco di molti e quando qualcuno incitava all'odio, pochi furono in grado di pronunciare quella parola che fa orrore: genocidio. Eppure oggi tutti sappiamo.
Poco distante da quei luoghi, in Burundi, la tensione cresce di giorno in giorno, mentre sembra quasi fastidioso parlare e mostrare quel che accade.
 
L'escalation è iniziata ad aprile scorso quando il Presidente, il pastore Pierre Nkurunziza aveva annunciato la volontà di candidarsi per il terzo mandato, nonostante la Costituzione lo impedisse (Sancara aveva già scritto in questo post in quell'occasione e poi un altro nelsettembre scorso). A luglio, Nkuranziza è stato rieletto in elezioni ritenute farsa e i disordini si sono moltiplicati.
La tensione cresce di ora in ora e mentre il Presidente chiede alle forze speciali di "usare ogni mezzo per garantire la sicurezza" e concede ultimatum alle opposizioni che lo contestano, non mancano le forze politiche che soffiano, pericololamente, sull''odio etnico.
Inutile ricordare che solo un decennio fa, tra il 1996 e il 2006, la guerra civile in Burundi fece oltre 300 mila morti. 
A Bujumbura, la capitale del piccolo paese, oramai è guerra aperta. Come testimonia Fulvio Beltrami sull'Indro, giornalista dall'Uganda, uno dei primi e poi dei pochi, a parlare del Burundi, la situazione è caotica ed incerta.
Ma i segnali più evidenti, e preoccupanti, sono gli appelli alla carneficina o meglio al grido Kora Kora (andiamo a lavorare) che ricordano molto da vicino gli appelli a "schiacciare gli scarafaggi" che avevano accompagnato il genocidio ruandese. Oppure la negazione evidente di alcuni quotidiani locali che minimizzano i fatti, dando dei visionari a chi invita alla calma. Così come appaiono preoccupanti le sostituzioni dei vertici militari con uomini fidati e di sicura fede o, ancora, la distribuzione, sottobanco, di armi ai civili.
Insomma, siamo onesti, i segnali di qualcosa che rischia di rompersi sono tutti evidenti. Le Nazioni Unite, memori del fallimento nella crisi ruandese, hanno già convocato un consiglio di sicurezza e nominato un mediatore (il presidente ugandese Musuveni), mentre da giorni la gente ha iniziato a scappare dal Paese. Come spesso accade sono i civili, soprattutto donne e bambini, ad essere i primi  colpiti da queste crisi umanitarie. I primi profughi hanno già varcato i confini e vanno ad ammassarsi in quella complessa situazione dei rifugiati che da decenni contribuisce a creare instabilità nella regione dei Grandi Laghi.

Teniamo accesi i riflettori, perchè solo nel buio le azioni più ignobili possono prevalere. 

firmasancara.org

Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:41

Le cascate del Nilo azzurro

L'Etiopia è la terra dove il Nilo Azzurro, fonte di vita per l'intero Egitto, nasce e forma le imponenti cascate conosciute in amarico col nome di Tisissat (“Acqua che fuma”), scoperte dall'esploratore scozzese James Bruce nel XVIII secolo. E' la terra dalle mille sorgenti di acque balsamiche e dai numerosi stabilimenti termali (Finfinnè, Ambo, Erer, Wondo Ghennet). Le cascate che si stima siano alte dai 37 ai 45 metri, consistono di quattro corsi d'acqua che variano da gocciolii nella stagione secca ai 400 metri di ampiezza durante quella delle piogge. La regolazione del lago Tana influisce molto sulle cascate e, a partire dal 2003, una centrale idro-elettrica preleva una gran parte dell'acqua che prima fluiva per le cascate. Sono considerate una delle attrazioni turistiche più conosciute in Etiopia. A breve distanza seguendo la corrente, si trova il primo ponte di pietra costruito in Etiopia, edificato per volere dell'imperatore Susenyos nel 1626. La costruzione fu supervisionata da architetti provenienti da Spagna e India.
Tra la polvere e gli asini del villaggio di Ropi, in Etiopia centrale, ci sono un’aula computer e un cineforum. Non arrivano l’acqua corrente e l’asfalto, ma è appena nato un asilo e la terra rossa è tappezzata da forni solari. L’architetto Lorenzo Fontana, 33 anni, genovese di Castelletto, vive qui da sette anni. A Ropi ha imparato a chiedere alla polvere e ad ascoltare le pulci, a vivere con un ritmo diverso da quello lasciato a Genova. Qui ha portato la sua “buona novella”, lavorando come architetto e cooperante al fianco degli abitanti. Era andato in Etiopia a raccogliere materiale per la sua tesi di laurea. A Genova abitava nei vicoli, ma ha deciso di costruire a Ropi la sua casa. Architettura sostenibile, cooperative di lavoratori, programmi culturali: per i suoi progetti si appoggia a università e a Ong internazionali, ma soprattutto alla popolazione locale. "E’ importante l’impronta alla cooperazione – spiega Lorenzo Fontana - si lavora sempre “insieme” ai beneficiari, non “per” loro. Ropi è in una regione martoriata dall’erosione del suolo: gli abitanti tagliano i pochi alberi per fare capanne, carretti e legna da ardere. Senza copertura vegetale la terra si spacca e con le piogge le vene aperte del suolo si spalancano. Ispirato dalle idee degli architetti Hassan Fathy e Fabrizio Caròla, Lorenzo ha diffuso una nuova tecnica costruttiva che prevede l’uso di mattoni in terra cruda al posto del telaio di legno. Da quest’anno collabora con il Centro aiuti per l’infanzia, una Ong italiana. "E’ appena nato un asilo con 65 bambini – continua – è pensato come un villaggio in miniatura, con una piazza centrale e gli orti. Ogni bambino ha una porzione di terra che deve seminare e curare, e da cui raccoglierà i frutti". Insieme agli studenti universitari che quest’estate hanno fatto un workshop a Ropi, ha costruito uffici e un’aula computer. Sono partiti corsi di inglese e di informatica per i maestri della scuola pubblica; i contadini hanno imparato a praticare le colture integrate, per ottimizzare il raccolto e ridurre i pesticidi chimici. "Abbiamo anche una biblioteca e un cineforum. Ogni settimana si proiettano film e documentari che mostrano oceani e pesci colorati, megalopoli scintillanti, civiltà dell’altra parte del pianeta".
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:40

Il lago di lava

Che cosa bolle in pentola? Per scoprirlo conviene dotarsi di una tuta spaziale o qualcosa di simile. Si, perchè chi sbircia senza protezione nel cratere Erta Ale, in Etiopia, rischia di finire "bollito". Al suo interno gorgoglia un "minestrone" di lava incandescente che sprigiona vapori solfurei a 1.200 gradi. Ma la cosa strana è che questo lago di lava non è frutto di una recente eruzione ma è permanente. A causa dell'emissione continua di caldissimi gas sotterranei, infatti, il magma non si solidifica, rimanendo allo stato liquido per diversi anni. Nel mondo ci sono quattro vulcani di questo tipo, l'Erta Ale, il kilauea nelle Hawaii, l'Erebus in Antartide, e il Nyragongo in Congo.
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:39

Babbo Natale porta l'acqua in Etiopia

Portare l’acqua dove c’è bisogno, filtrarla, pulirla nel cuore dell’Africa. È la passione di Silvano e Sandro Santilli che da anni con la ditta Rift Valley Water Technology forniscono impianti relativi alle forniture di acqua e servizi igienico-sanitari. Così ora in Etiopia curano un progetto particolare con prodotti che variano. «Dall’unità più piccola – spiega Silvano – che produce circa seimila litri di acqua pulita all’ora, a quella più grande che ne produce circa 20 mila, unità che funzionano con moto pompe e senza bisogno di corrente elettrica la quale naturalmente in quei luoghi non esiste». Come? L’acqua viene raccolta in vasche smontabili e trasportabili che possono raggiungere i vari “water points”. «Uno degli ultimi prodotti – spiega – è l’”Eco1 River” che ne produce 20/25 litri all’ora, per piccole comunità di 100/150 persone , che tratta l’acqua di fiume o di lago che viene raccolta direttamente nei loro contenitori (Jerikans), senza l’uso di vasche di raccolta e anche questo senza l’utilizzo di energia elettrica». Così Babbo Natale sotto l’albero in Etiopia porta tutt’altro. «I momenti più belli – racconta Silvano – sono ogni qualvolta metti in moto un impianto e leggi negli sguardi della popolazione la meraviglia insieme all’incredulità di vedere quell’acqua di fiume torbida e scura che hanno bevuto da quando sono nati, in acqua completamente chiara e trasparente». Come è nato il vostro progetto? Trattare l’acqua per scopi umanitari è stato un sogno che insieme a mio fratello abbiamo coltivato sin da quando eravamo ragazzi e frequentavamo l’isituto per geometri di Addis Ababa. Ed è stato sin da allora che abbiamo iniziato ad interessarci e ad approfondire la materia. Tutto quello che riguardava l’acqua ed i suoi metodi di filtrazione erano oggetto di curiosità morbosa che automaticamente ci portavano a fantasticare su nuovi e possibili sistemi di depurazione. La conferma finale poi la abbiamo avuta quando, finite le scuole, mio padre ci portò in Italia e ci lasciò per due mesi a fare un corso specifico sull’acqua presso la Culligan Italiana di Cadriano di Granarolo in provincia di Bologna, una delle migliori ditte del settore e della quale eravamo già agenti per l’Etiopia. Trattare l’acqua era quello che effettivamente volevamo fare. Dopo diversi anni, l’occasione che comunque non ci aspettavamo. Avevamo appena finito di costruire un filtro mobile nel piccolo compound della nostra ditta in Addis Abeba tra spazi molto limitati e stretti, quando venne casualmente a farci visita l’allora capo dell’Oromia Water Bureau, oggi Ministro della Water, Mineral and Energy Bureau che vide il filtro che eravamo riusciti a costruire e di conseguenza il potenziale da poter mettere a disposizione del paese. Fu così lui a spingerci e ad aiutarci ad ottenere un terreno a 40 km da Addis Abeba (Bishoftu) dove oggi sorge la nostra nuova attività, la Rift Valley Water Technology, dicendoci che dovevamo assolutamente dedicarci a tempo pieno a progettare nuove tecnologie che avrebbero apportato un aiuto importante a combattere la siccità e dato la possibilità a quelle popolazioni in zone altamente disagiate, di poter bere acqua pulita e batteriologicamente pura. Da lì l’idea di concentrarci a trovare il filtro giusto che non procurasse problemi di manutenzione e soprattutto un filtro che qualsiasi persona con nessuna o poca conoscenza tecnica potesse usare facilmente in qualsiasi luogo e momento, il tipico filtro per le situazioni di emergenza. Oggi dopo i primi 10 anni di attività e avendo l’Unicef inserito la nostra ditta nella Task Force insieme a tutte le alter NGO’s per combattere l’AWD (Acute Watering Desease) in Etiopia, possiamo dire che stiamo contribuendo in maniera vigorosa per cercare di alleviare questo problema. E’ anche motivo di orgoglio sapere che intorno a tutto il confine etiopico, tutti i campi rifugiati gestiti dall’Unicef che una volta usava filtri importati dall’Europa , oggi usa i nostri. I ricordi più belli? Avete mai pensato di mollare davanti alle difficoltà? Forse il ricordo piu’ bello è stato quando sono riuscito ad ottenere dal governo, il terreno sul quale, io e mio fratello Sandro, potevamo realizzare il sogno di poter costruire quello che oggi è la nostra attività, nonostante le lungaggini burocratiche e le mille difficoltà che abbiamo attraversato, ma con la voglia di fare e non fermarci mai al primo ostacolo. Ma sicuramente i momenti più belli sono ogni qualvolta metti in moto un impianto e leggi negli sguardi della popolazione la meraviglia insieme all’incredulità di vedere quell’acqua di fiume torbida e scura che hanno bevuto da quando sono nati, trasformata in acqua completamente chiara e trasparente e i bambini che sfogano con urla e sorrisi la loro gioia attaccandosi ai rubinetti per bere a volontà. Tutto questo è impagabile. E come potremmo solamente pensare di poter mollare alla prima difficoltà. Le difficoltà non mancano e non mancheranno mai, ma questa è l’Africa e la devi prendere e amare per quello che è, ed io e mio fratello Sandro che con le nostre famiglie allargate sono ormai cinque generazioni che viviamo qui, siamo e ci sentiamo africani e condividiamo i piaceri e i dolori che questa meravigliosa terra ci ha offerto e ci continua ad offrire.
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:38

Il ritorno degli schiavi dell'Arabia Saudita

Non avevano diritti. Ed erano sfruttati. Ma ora Riad se ne vuole sbarazzare. Per assicurare lavoro ai suoi cittadini. L'odissea degli immigrati africani espulsi dal Medio Oriente. L’espulsione in massa di cittadini etiopi dall'Arabia Saudita sta mettendo a dura prova il governo di Addis Abeba, alle prese con il rientro, anche dopo anni, di quasi 140 mila suoi cittadini emigrati nella petromonarchia in cerca di lavoro. Sono arrivati nelle ultime settimane con voli umanitari - ne sono stati effettuati circa 20 al giorno - nei sei centri di transito allestiti dal governo nella capitale etiope per accogliere migliaia di persone (fino a 7 mila al giorno). Sono uomini, donne e bambini che in molti casi tornano a casa a mani vuote, dopo essere stati rastrellati dalle forze di sicurezza saudite in un'operazione di espulsione degli immigrati illegali che ha coinvolto cittadini di diverse nazionalità, soprattutto yemeniti, africani e asiatici. CAMPAGNA ANTI-IMMIGRATI. L’implacabile campagna contro gli immigrati irregolari in Arabia Saudita è stata inaugurata a novembre, allo scadere dei sette mesi di amnistia concessi ai lavoratori migranti irregolari, ed è stata particolarmente dura per la comunità etiope. L’atteggiamento delle autorità del regno si è inasprito in seguito agli scontri, il 9 novembre, tra gli immigrati e la polizia a Manfouah, quartiere meridionale della capitale abitato prevalentemente da somali, etiopi ed eritrei (il bilancio è stato di tre morti e 68 feriti tra i migranti). Ne è seguita una caccia all’immigrato casa per casa, arresti di irregolari e intere famiglie caricate sui pullman e trasferite nei centri di detenzione senza neanche la possibilità di portare con sé i propri averi. RIAD TUTELA I SUOI CITTADINI. Il giro di vite deciso dalla monarchia wahabita è il frutto di una nuova normativa varata dal ministero del Lavoro per far fronte all’aumentato tasso di disoccupazione (10%, all’incirca come in Yemen, Siria, Egitto e Tunisia) che tra i giovani, che sono il 60% della popolazione, supera il 30%. In sostanza è stato deciso di espellere i lavoratori stranieri irregolari, che accettano salari bassi, per dare lavoro ai sauditi, oltre a favorire i cittadini del regno nei concorsi pubblici e a imporre alle imprese locali di riservare il 10% delle assunzioni ai sauditi. SAUDIZZAZIONE DEL LAVORO. Politiche di 'saudizzazione' del mercato del lavoro che hanno anche lo scopo di mettere al riparo il trono di re Abdallah, appena sfiorato dai venti delle cosiddette Primavere arabe che hanno spazzato il Medio Oriente e il Nord Africa, da possibili sollevazioni popolari innescate dalla mancanza di lavoro. Infatti, già tre anni fa Riad aveva iniziato a ridurre la quota dei permessi di lavoro per gli stranieri, prima limitando l’ingresso dei filippini, dopo che Manila aveva lamentato violazioni dei diritti umani nei confronti dei suoi cittadini, e in seguito allargando il provvedimento agli etiopi. L'inutile viaggio della speranza con il rientro in patria Etiopi in attesa di essere rispediti ad Addis Abeba. (© Getty Images) Etiopi in attesa di essere rispediti ad Addis Abeba. In Etiopia il flusso degli arrivi sta diminuendo (circa 1.000 al giorno), ma sono attese almeno altre 35 mila persone da Riad, Gedda e Medina, cui bisogna fornire assistenza immediata: cure mediche, vestiti, cibo, acqua, farmaci, coperte, trasporti per rientrare nelle città e nei villaggi di origine. Molti di loro hanno storie terribili da raccontare: i loro viaggi sono spesso iniziati da villaggi rurali etiopi, attraverso il deserto di Afar fino in Gibuti, sulle sponde del Mar Rosso, oppure fino al Somaliland, regione della Somalia settentrionale. Centinaia di chilometri con acqua e cibo scarsi. Un viaggio della speranza in cui tanti perdono la vita. Per attraversare il golfo di Aden si devono pagare i trafficanti e sull’altra sponda, in Yemen, si rischia di cadere nelle mani di altri criminali che sottraggono i documenti ai migranti per poterli sfruttare come mano d’opera gratuita, mentre le donne sono talvolta costrette a prostituirsi. SOGNO INFRANTO ALL'ARRIVO. Dal poverissimo Yemen la strada verso l’Arabia Saudita è ancora disseminata di pericoli per i migranti che una volta arrivati a Riad continuano a essere sfruttati. Accettano i lavori più umili, quelli che i sauditi rifiutano, spesso sono maltrattati dai datori di lavoro e sono vittime di discriminazioni. Per migliaia di etiopi la speranza di un futuro migliore è naufragata nelle ultime settimane, con le deportazioni e le dure detenzioni nei centri sauditi. LA DISPERAZIONE DI CHI TORNA. I returnee hanno raccontato di essere stati picchiati, di essere stati rinchiusi per giorni o settimane in prigioni sovraffollate, senza assistenza medica né servizi adeguati. Molti hanno infezioni alle vie respiratorie, alcuni mostrano sintomi di depressione e ci sono casi di donne che hanno dichiarato di avere subito molestie sessuali, ha raccontato un'infermiera di un centro di transito di Addis Abeba al quotidiano britannico The Guardian. L'ALLARME LANCIATO DALL'OIM. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che sta assistendo i returnee ha lanciato un appello alla comunità internazionale: servono ancora 11,2 milioni di dollari (finora ne sono stati raccolti 1,9), nonostante le donazioni che pure sono arrivate dalle agenzie delle Nazioni unite, dall’Unione europea e dall’Indian business forum. «Molte di queste persone hanno bisogno di cure mediche. Tra loro ci sono donne incinte o agli ultimi mesi di gravidanza, disabili, anziani, minorenni soli», ha spiegato Josiah Ogina, capo della missione Oim in Etiopia. Per il ministro degli Esteri etiope, Dina Mufti, l’espulsione dall’Arabia Saudita «in fondo è stato un bene», una lezione per chiunque intenda emigrare illegalmente e senza avere idea di cosa troverà all’arrivo. L'Etiopia cresce dell'8,5%, ma la disoccupazione è al 20% In Arabia Saudita gli immigrati non possono avere un'attività, ma sono 'schiavi' del datore di lavori. (© Getty Images) In Arabia Saudita gli immigrati non possono avere un'attività, ma sono 'schiavi' del datore di lavori. Al di là della prima assistenza, è quello che li attende in futuro a preoccupare gli etiopi appena rimpatriati. Non è cosa semplice la re-integrazione di migliaia di persone, che in molti casi hanno perso tutto, nella società e nell’economia del Paese. Non c’è a riguardo un chiaro programma del governo, un po’ spiazzato dall’entità dei rientri. L’economia etiope ha uno dei tassi di crescita più elevati dell’Africa (8,5%), ma la maggioranza della popolazione vive con meno di due dollari al giorno ed è impiegata nell’agricoltura, mentre l’industria non è un settore sviluppato. La disoccupazione nelle città è al 20%, secondo l’Oim, e il rientro di decine di migliaia di migranti significa anche perdere una quota delle rimesse che sostengono tante famiglie e pure l’economia del Paese. Centinaia di etiopi ogni anno partono in cerca di lavoro, tanti diretti verso i Paesi del Medio Oriente. Secondo il ministero del Lavoro, nel 2012 200 mila donne hanno cercato lavoro all’estero. LA TUTELA DEI LOCALI. L’Arabia Saudita, invece, sta tentando in maniera repentina di cambiare il modello del suo mercato del lavoro, in cui gli impieghi statali sono appannaggio quasi esclusivo dei sauditi, mentre quelli privati vanno soprattutto agli stranieri che costano circa un terzo in meno. Un rapporto che Riad vuole riequilibrare, anche perché il settore pubblico non può assorbire tutta la domanda di lavoro dei sauditi. E per farlo ha scelto di usare il pugno di ferro con i migranti illegali, vittime di un sistema dei permessi di lavoro che di fatto ne favorisce lo sfruttamento. Secondo i dati diffusi dall’agenzia AFP, 1 milione dei circa 9 lavoratori stranieri ha approfittato dell’amnistia per lasciare il regno, mentre altri 4 milioni sono riusciti a trovare lo sponsor necessario per poter restare. NELLE MANI DELLO SPONSOR. La normativa sul lavoro stabilisce infatti che gli immigrati non possono essere titolari di un’attività e sono legati al loro sponsor (il datore di lavoro): cioè non possono neanche cambiare lavoro senza il permesso di quest'ultimo, altrimenti diventano irregolari. Molti pagano una specie di 'mazzetta' allo sponsor per potere lavorare o anche per aprire un’attività di cui ovviamente non possono risultare proprietari. GLI ABUSI SUI LAVORATORI. Le limitazioni alimentano il lavoro sommerso e gli abusi sui lavoratori stranieri, talvolta degenerati in vere e proprie violenze contro gli immigrati: sono stati diversi i casi di badanti e colf maltrattate e persino uccise dai datori di lavoro. Il sistema di sfruttamento e di violazione dei diritti umani riguarda però l’intero mercato mediorientale del lavoro: situazioni simili si riscontrano in Oman, Libano, Emirati Arabi, Bahrein, Qatar. Chi non ha un permesso di lavoro, inoltre, è costretto a condizioni disumane, spesso soltanto per potere ripagare i trafficanti che li privano dei documenti. Protestare è inutile: di solito le vittime degli sfruttatori vengono rimpatriate.
(ASCA) - L'Aquila, 16 gen 2014 - E' stato firmato questa mattina ad Addis Abeba (Repubblica d'Etiopia) il protocollo tra la Regione Abruzzo e la Capitale africana per l'apertura di un centro Oncoematologico pediatrico. E' prevista la collaborazione tra l'ospedale di Pescara e l'Etiopia per garantire le cure a bambini etiopi. Il protocollo e' stato sottoscritto dal presidente del Consiglio regionale dell'Abruzzo, Nazario Pagano, dal sindaco di Pescara, Luigi Albore Mascia, dal direttore generale della Asl di Pescara, Claudio D'Amario, e le autorita' africane. ''La Regione Abruzzo e' ancora una volta protagonista in campo internazionale con l'attivazione di un altro protocollo sanitario con l'Etiopia che reputo molto importante - dice Pagano - Per quanto riguarda la cooperazione, la nostra credibilita' e' ormai consolidata e sempre con l'Etiopia firmeremo in futuro altri accordi che riguarderanno settori strategici''. All'iniziativa ha partecipato anche Marco Lombardo, presidente della Sezione Lilt di Pescara Onlus. iso/red
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:36

Pistelli in Etiopia

Unione Africana, Somalia, cooperazione con l’Etiopia: questi i principali temi al centro della visita di due giorni che il Vice Ministro degli Esteri Lapo Pistelli ha compiuto ad Addis Abeba, la terza dallo scorso anno, a testimonianza di una rinnovata attenzione con cui il Governo italiano guarda oggi al continente africano. Pistelli ha rappresentato l’Italia alla 24ma sessione ordinaria del Consiglio Esecutivo dell'Unione Africana (UA), il cui tema quest’anno è l’agricoltura. “Si tratta di un tema particolarmente caro all’Italia” – ha affermato il Vice Ministro - anche in vista di Expo 2015, che sarà dedicata appunto allo sviluppo sostenibile sotto il motto «Nutrire il pianeta, energia per la vita»”. Durante il vertice il Vice Ministro degli Esteri ha avuto numerosi incontri bilaterali con autorità africane, che hanno permesso uno scambio di vedute sulla situazione in Somalia e sull’evoluzione di altri teatri di crisi regionali, in particolare Sud Sudan e Repubblica Centrafricana. Con il Ministro degli Esteri della Guinea Equatoriale è stato affrontato il tema del connazionale italiano Berardi, detenuto nello Stato africano. Nel corso dell’incontro con il neo-nominato Ministro degli Esteri somalo, Abdirahman D. Beileh, Lapo Pistelli ha reiterato il sostegno dell’Italia al consolidamento dello Stato in Somalia, evidenziando la necessità di un’azione politica più incisiva da parte del nuovo Governo, in parallelo alla lotta agli Shabaab portata avanti dall’Unione Africana con la Missione AMISOM. Di stabilizzazione della Somalia Pistelli ha discusso, tra gli altri, con il Vice Presidente della Commissione UA, con il Segretario Esecutivo dell’IGAD (organizzazione regionale del Corno d’Africa, del cui forum di Paesi partner l’Italia detiene la co-Presidenza), con il Rappresentante Speciale dell’UE per il Corno d’Africa e con i Ministri degli Esteri dei principali Paesi dell’Africa orientale. Nel corso della visita il Vice Ministro ha colto l’occasione per rafforzare la cooperazione bilaterale tra Italia ed Etiopia, definito “vero partner strategico dell’Italia nel Corno d’Africa”. Con il Vice Ministro etiopico delle Finanze e dello Sviluppo economico, Ahmed Shide, è stato siglato un accordo di rinnovo del sostegno italiano per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio nel settore sanitario da parte dell’Etiopia, con un contributo di 7 milioni di Euro. Pistelli ha poi partecipato, insieme al Primo Ministro etiopico Hailemariam Desalegn, alla cerimonia di lancio della seconda fase del "General Education Quality Improvement Project ( GEQIP )", un programma finalizzato al miglioramento della qualità del sistema educativo etiopico che l'Italia sostiene con 7,5 milioni di Euro.
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:29

Aida.. principessa Etiope

È un'opera in quattro atti di Giuseppe Verdi su libretto di Antonio Ghislanzoni da un soggetto di Auguste Mariette.
La prima rappresentazione fu al "Kedivial Opera House " de Il Cairo il 24 Dicembre 1871 in occasione dell'inaugurazione del Canale di Suez. 
Trama

ATTO I

Aida vive a Menfi come schiava; il padre Amonasro organizza una spedizione in Egitto per liberarla dalla prigionia.
Aida si innamora del giovane guerriero Radamés, dal quale è riamata; ma di costui si è invaghita anche Amneris, la figlia del re d'Egitto.
Amneris nutre sentimenti di gelosia per la principessa etiope e falsamente la consola del suo pianto.
Un messaggero porta la notizia che l'esercito etiope guidato dal re Amonasro sta marciando verso Tebe: è la guerra.
Il Faraone designa Radamés comandante dell'esercito che combatterà contro gli Etiopi.
Aida è combattuta tra l'amore per Radamés e il sentimento per il padre e il suo popolo.
Fra cerimonie solenni e danze il gran sacerdote Ramfis gli consegna la spada consacrata.

ATTO II

Amneris riceve nelle proprie stanze, dove piccoli schiavi mori danzano, Aida e con l'astuzia la spinge a dichiarare i suoi sentimenti per Radamés, annunciandole la morte dell'amato in battaglia.
Amneris minaccia Aida che, disperata, è costretta a chiedere perdono.
Risuonano le trombe della vittoria e la popolazione accorre alla cerimonia del trionfo; mentre il re siede sul trono con la figlia, l'esercito sfila davanti a lui.
Radamés viene incoronato da Amneris con il serto dei vincitori ed intercede a favore dei prigionieri tra i quali si trova Amonasro, padre di Aida.
Il re accoglie la richiesta di rilasciare i prigionieri, poi, per la protesta dei sacerdoti, decide di trattenere come ostaggi Aida e un guerriero, in realtà Amonasro, che giura di aver sepolto il re degli Etiopi.
Per gratitudine il Faraone concede a Radamés la mano della propria figlia.

ATTO III

Radamés ha solo apparentemente acconsentito a diventare sposo di Amneris, la quale si reca al tempio della dea Iside per pregarla di proteggere le sue imminenti nozze.
Quella stessa notte, mentre Aida attende l'amato sulle sponde del Nilo, Amonasro convince la figlia a tradirlo: Aida ottiene le informazioni richieste.
Il padre, poi, spia il colloquio tra i due innamorati e viene a conoscenza del luogo dove l'esercito egiziano attaccherà gli etiopi.
Quando Amonastro esce dal nascondiglio e si presenta come il re degli Etiopi, Radamés capisce di aver involontariamente tradito il proprio paese.
Con il suo aiuto Aida e il padre riescono a fuggire, mentre Radamés si consegna al gran sacerdote per espiare la propria colpa.

ATTO IV

Amneris desidera salvare la vita dell'uomo che ama, ma Radamés la respinge: non vuole più nascondere il suo amore per Aida, la schiava liberata e sopravvissuta alla battaglia durante la quale ha perso il padre.
Amneris si dispera, implora pietà per Radamés che viene condannato dai sacerdoti per tradimento ad essere sepolto vivo.
Nella cripta sotto il tempio di Vulcano, mentre sta per essere murato, invoca Aida e costei come in un sogno gli appare: è venuta a morire con lui.
I due innamorati si abbracciano e dicono addio al mondo che li ha condannati, mentre nel tempio Amneris piange e prega durante le cerimonie religiose e la danza delle sacerdotesse. 

Personaggi

  • AIDA (soprano) principessa etiope
  • RADAMÉS (tenore) capitano dell'esercito faraonico
  • AMONASRO (baritono) re dell'Etiopia e padre di Aida
  • AMNERIS (mezzosoprano) figlia del re d'Egitto
  • RE D'EGITTO (basso)
  • RAMFIS (basso) gran sacerdote
  • UNA SACERDOTESSA
  • UN MESSAGGERO
  • CORO di sacerdoti, sacerdotesse, ministri, soldati, ufficiali, schiavi, popolo egizio

Brani celebri

  • Atto Primo
    • Se quel guerriero io fossi... Celeste Aida, romanza di Radames
    • Ritorna vincitor, romanza di Aida
  • Atto Secondo
    • Fu la sorte, duetto Amneris Aida
    • Gloria all'Egitto, Coro
    • Quest'assisa ch'io vesto, Amonasro
    • Son nemici e prodi sono, Ramfis
  • Atto Terzo
    • O cieli azzurri, romanza Aida
    • A te grave cagione m'adduce, duetto Amonasro e Aida
    • Rivedrai le foreste imbalsamate, duetto Amonasro e Aida
    • Pur ti riveggio, mia dolce Aida, duetto Radamés e Aida
  • Atto Quarto
    • L'aborrita rivale a me sfuggia, duetto Amneris e Radamés
    • "Ohimè! Morir mi sento", Amneris, Ramfis e sacerdoti)
    • La fatal pietra sovra me si chiuse... " O terra addio ", duetto Radamés e Aida
Stati chiave, tra cui Botsawa, Ciad, Cina, Gabon, Etiopia, Indonesia, Tanzania e Vietnam, insieme ad Usa e Russia, hanno firmato per intraprendere azioni che aiuteranno a "sradicare la domanda di prodotti naturali, rafforzare l'applicazione della legge, e sostenere lo sviluppo di mezzi di sussistenza sostenibili per le comunità coplite dalla criminalità della fauna selvatica". Queste misure includono: il sostegno al proseguimento dell’attuale divieto internazionale in materia di commercio di avorio di elefante; la rinuncia all’uso dei prodotti di specie minacciate di estinzione; la modifica della legislazione per far diventare il bracconaggio e il traffico di fauna selvatica “reati gravi” ai sensi della Convention against Transnational Organized Crime dell’Onu; il rafforzamento della cooperazione transfrontaliera e del coordinamento dei “regional wildlife law enforcement networks”; ulteriori analisi per comprendere meglio i legami tra la criminalità della fauna selvatica e le altre forme di criminalità organizzata e la corruzione e per esplorare i legami con il terrorismo. Infatti al summit erano presenti anche organismi internazionali come Cites, Unep, Banca di Sviluppo Africana e la Banca Mondiale, Interpol, Unodoc ed Afdb a conferma del coinvolgimento delle organizzazioni criminali nellla rete internazionale del bracconaggio e del traffico di specie selvatiche. In Africa è in corso una vera e propria guerra contro gli animali che miete anche vittime umane: negli ultimi 10 anni sono stati uccisi dai bracconieri 1.000 ranger dei parchi e il traffico di fauna selvatica finisce per innescare un ciclo di instabilità che aumenta la povertà e minaccia la sicurezza regionale e internazionale. Il Wwf da un giudizio positivo dell’accordo che «esprime l’impegno che la comunità si è assunta per contrastare questi traffici e comprende dei punti cruciali per la lotta alla criminalità “di natura”, tra cui: mettere in campo quelle azioni capaci di stroncare il mercato di prodotti illegali provenienti da specie protette, rafforzare l’applicazione delle leggi in materia e assicurare che vi sia un quadro legislativo comune certo e deterrenti efficaci contro l’illegalità, promuovere la gestione sostenibile delle risorse naturali affiancando con progetti concreti le comunità locali dei paesi dove vivono le specie più colpite, tra cui elefanti, rinoceronti, tigri». D’altronde Traffic, il programma congiunto di Wwf ed Iucn per monitorare e contrastare il commercio legale e illegale di fauna selvatica, ha collaborato con il governo britannico alla preparazione della conferenza londinese e sottolinea che «la “Dichiarazione di Londra” che riconosce la vasta portata del problema e le sue implicazioni economiche (il giro di affari mondiale del traffico illegale di wildife vale 19 miliardi di dollari annui), sociali e ambientali inclusa l’escalation del bracconaggio che è in atto e sempre più il forte coinvolgimento della criminalità organizzata nei traffici illegali che minacciano il ruolo stesso della legge e dei legittimi governi e incoraggiano la corruzione». E’ importante che tra i Paesi che hanno partecipato alla Conference on Illegal Wildlife Trade ci fossero anche la Repubblica Democratica del Congo, il Gabon, il Kenya e la Tanzania che, insieme a Repubblica Centrafricana, Sudan, Somalia, Etiopia, Ciad, Mali, (non presenti a Londra) sono tra i più coinvolti nel bracconaggio contro gli elefanti. Al summit anti-bracconaggio hanno partecipato anche Paesi come il Togo che fungono da aree di transito per l’avorio africano verso Cina, Malaysia, Filippine ed i protagonisti del commercio illegale di corni di rinoceronti come Sudafrica, Mozambico, Vietnam, insieme agli Stati coinvolti nel traffico di parti di tigri come Indonesia, Myanmar, Russia e Cina. I presidenti di Botswana, Chad, Gabon e Tanzania e il ministro degli esteri dell’Etiopia hanno presentato la proposta di una Elephant Protection Initiative che asscuri nuovi fondi privati e pubblici per implementare l’African Elephant Action Plan. Secondo Isabella Pratesi, responsabile conservazione Internazionale del Wwf Italia, «i governi hanno lanciato un messaggio forte attraverso la Dichiarazione di Londra. Il commercio illegale costituisce una minaccia globale serissima alla biodiversità, paragonabile ad una vera e propria “estinzione di massa”. Il numero di rinoceronti uccisi illegalmente nel solo Sud Africa è salito a oltre 1.000 lo scorso anno dagli appena 13 esemplari uccisi dal bracconaggio 6 anni fa. Le ultime stime parlano oramai di solo 3.200 tigri rimaste in natura e per la tigre di Sumatra abbiamo solo pochi anni per non perderla come quella di Bali e di Giava, e, secondo stime recenti, sono oltre 25.000 gli elefanti africani (soprattutto di foresta) illegalmente uccisi nel solo 2012, con una media di 100 animali uccisi ogni giorno. Ci auguriamo che anche l’Italia, che è un grande consumatore di risorse naturali, il primo mercato di pelli di rettile dall’Asia e di legname dalle ultime foreste della tigre sappia e si decida a fare la sua parte».
Gli architetti italiani Arturo Vittori e Andreas Vogler dello studio Architecture and Vision, hanno sviluppato, con il sostegno del Centro Italiano di Cultura di Addis Abeba e la EiABC (Ethiopian Institute of Architecture, Building Construction and City Development) il progetto “Warka Water”, una torre di raccolta dell'acqua realizzata a mano e con materiali naturali. Il progetto, presentato per la prima volta alla Biennale di Architettura di Venezia nel 2012, è rivolto alle popolazioni rurali dei paesi in via di sviluppo, dove le condizioni infrastrutturali ed igieniche rendono l'accesso alla acqua potabile quasi impossibile. In particolare nelle aree montane dell'Etiopia le donne e i bambini sono costretti a percorrere lunghi percorsi a piedi per approvvigionarsi da fonti la cui sicurezza dell'acqua è compromessa dal rischio di contaminazione dovuto alla condivisione delle fonti con il bestiame. Questa situazione comporta, oltre ad un elevato rischi per la salute, un aggravio notevole di lavoro per le donne già impegnate in molteplici mansioni domestiche ed accentua l'impossibilità per i bambini e le donne stesse di accedere all'educazione scolastica. Il “Warka Water” si pone come soluzione alternativa per risolvere almeno in parte questa situazione. La torre dell’acqua ha una struttura reticolare a maglia triangolare realizzata con il giunco, materiale naturale facilmente reperibile e può essere costruita facilmente dagli abitanti stessi. All'interno della torre, alta 9 metri, è alloggiata una rete realizzata con un tessuto speciale, polietilene tessile, in grado di raccogliere l'acqua potabile dell'aria tramite condensazione. La struttura pesa solo 60 kg, è composta da 5 moduli che possono essere installati dal basso verso l'alto da 4 persone senza la necessità di ponteggi, data la sua leggerezza il sistema deve essere fissato al terreno. “Warka Water” può raccogliere fino a 100 litri di acqua potabile al giorno. Il progetto italiano raccoglie al suo interno i segni di diverse fonti di ispirazione, che uniscono l'aspetto sociale, ecologico ed estetico. Il nome Warka scelto per il progetto, deriva dalla lingua etiope ed identifica un grande albero di fico, che nella tradizione è simbolo di fecondità e generosità. Allo stesso tempo Warka, nella cultura pastorale etiope, designa il luogo di aggregazione e istruzione della comunità. Purtroppo a causa del progressivo disboscamento di queste aree la scomparsa di questi alberi e dell'identità culturale ad essi legata sembra inevitabile. Da un punto di vista ecologico, il sistema trae ispirazione dal piccolo coleottero Namib, copiando le sue strategie di adattamento al clima. Il piccolo insetto raccoglie l'acqua del deserto facendo condensare l'umidità sul suo addome, dove si trasforma in piccole gocce, che scivolando sul dorso idrorepellente, raggiungono la bocca. Infine, da un punto di vista estetico gli architetti si sono ispirati all'artigianato tradizionale etiope ed alle nasse tradizionali utilizzate nel Mediterraneo. La speranza è quella di poter iniziare a diffondere nel 2015 le Warka Water nei territori rurali etiopi.
La preoccupazione internazionale alimentata dalla diga Gibe III e dai piani agro-industriali ad essa associati continua a crescere, e recentemente ha raggiunto anche alcuni politici europei e americani. L’impatto su uno dei luoghi a maggiore diversità biologica e culturale del pianeta, infatti, potrebbe essere catastrofico. La bassa valle del fiume Omo, in Etiopia, e il lago Turkana in Kenya sono abitati da almeno 500.000 indigeni e sono luoghi celebri, dichiarati Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO su entrambi i versanti del confine. Il deputato europeo Andrea Zanoni ha depositato un’interrogazione scritta al Parlamento Europeo sollevando la questione delle violazioni dei diritti umani che circonda il progetto. Nel testo, l’europarlamentare chiede alla Commissione anche un giudizio in merito al coinvolgimento di un’azienda italiana (la Salini Costruttori), incaricata di realizzare la diga senza gara d’appalto. Il parlamentare Lord Jones ha invece interrogato il Parlamento britannico in merito all’uso di fondi provenienti dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale (DfID) per l’esecuzione degli sfratti forzati. Un altro parlamentare, Mark Durkan, si è rivolto direttamente al DfID chiedendo risposte sullo stesso punto. omo article column L’associazione International Rivers ha pubblicato un video che illustra come la diga Gibe III, associata a piantagioni di canna da zucchero, cotone e palma, costituisca un serio rischio idrogeologico per la regione. I progetti avranno anche costi umani molto elevati, perché distruggeranno l’industria ittica, i terreni da pascolo e i sofisticati sistemi di coltivazione da cui dipendono gli abitanti indigeni della regione. Human Rights Watch ha diffuso un serie di grafici di grande impatto basati su immagini del satellite che mostrano la rapida progressione del fenomeno dell’accaparramento di terre associato al progetto idroelettrico. Survival e altre ONG denunciano da tempo gli sfratti forzati di centinaia di Bodi e Kwegu, trasferiti in campi di reinsediamento da un governo che si sta rapidamente impadronendo delle loro terre agricole migliori per convertirle in piantagioni di canna da zucchero destinate al commercio su larga scala. Pur avendo ricevuto consistenti resoconti di seri abusi nella regione, i donatori internazionali come l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID) e il DfID hanno ripetutamente mancato di intervenire. Tuttavia, il mese scorso il Congresso degli Stati Uniti ha denunciato l’insabbiamento della situazione da parte dell’USAID, e ha chiesto misure legali perché il denaro dei contribuenti americani non sia usato per finanziare reinsediamenti forzati nella bassa valle dell’Omo. Da anni l’Etiopia è uno dei principali beneficiari anche degli aiuti della Cooperazione italiana. Nel 2005, La DGCSaveva erogato un credito d’aiuto di 220 milioni di euro per la realizzazione dell’impianto idroelettrico “Gilgel Gibe II”, il finanziamento italiano più consistente mai concesso a un solo progetto di cooperazione. Un ulteriore credito d’aiuto di 250 milioni di euro, messo a disposizione per co-finanziare il proseguimento del progetto con la diga Gibe III, fu sospeso il 31 marzo 2011 in un clima di ferma opposizione da parte di Survival e della vasta maggioranza delle Ong italiane. Lo scorso anno, l’Etiopia è stato riconfermato come uno dei paesi prioritari per il triennio 2013-2015, con un raddoppio dei fondi stanziati nel triennio precedente.
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:23

Ecco le emoticon di colore

Non potete fare a meno delle emoticon per comunicare con i vostri amici? Proprio nei giorni in cui si parla tanto di razzismo, arriva da una Start-Up africana un modo divertente e singolare per dare un calcio alle diversità. La Oju Africa, azienda con sede nelle Mauritius, è stata la prima al mondo a progettare le simpatiche faccine di colore. I download sono già stati 16mila, la maggior parte dagli Stati Uniti. Un'idea nata alla fine del 2012 - Una piccola Start-Up ha battuto Apple e può fregiarsi del titolo di prima azienda a lanciare le emoticon di colore. Come spiegato alla CNN da Alpesh Patel, chief executive di Oju Africa, l'idea è nata alla fine del 2012 e ci sono voluti quasi un anno e mezzo per farla diventare realtà. Dopo le lamentele di Miley Cyrus e dell'attore Tahj Mowry di fine marzo per la mancanza di emoticons multirazziali, inoltrate a Tim Cook (CEO di Apple) da Joey Parker (MTV Act blogger) e la risposta del colosso americano che si era detto d'accordo, la Start-Up africana ha dovuto accelerare i tempi e anticipare il lancio delle nuove icone previsto per il 10 aprile. Oltre 16mila download - Le faccine sono state progettate per funzionare su tutte le piattaforme Android e saranno presto disponibili anche su iOS. Il successo sembra assicurato, visto che finora sono già stati effettuati più di 16.000 download, la maggior parte dei quali negli Stati Uniti. Patel è davvero orgoglioso di quanto fatto dalla sua azienda: "Abbiamo sviluppato qualcosa di molto particolare e molto innovativo. Queste ultime tre settimane sono state un grande successo, che pensiamo possa davvero aiutare a dare una spinta all'innovazione africana. Non sono molte le cose che esportiamo dall'Africa, che si possono vendere all'estero, la maggior parte qui da noi da Oltreocenano.
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:23

L'Etiopia domina la maratona di Roma

La corsa agonistica è stata dominata dall'Etiopia con Legese Hailu per gli uomini e Geda Lemma che hanno trionfato in una gara condizionata dalle condizioni meteorologiche al limite. Su Roma si è infatti abbattuto un forte temporale nel corso della Maratona rendendo scivoloso tutto il tracciato. Tra gli uomini secondo Sisay Jisa, terzo il keniano Leonard Langat che nel finale si è reso protagonista di un simpatico siparietto indossando il copricapo da legionario romano. Un pizzico di delusione infine, per Emma Quaglia, tra le favorite e giunta terza.
Mercoledì, 18 Novembre 2015 09:21

Etiopia, capra chiede un passaggio in bicicletta

Invece di scegliere il solito prato questa capra etiope ha “optato” per un giro in bicicletta nell’ora di punta sedendo sulle spalle di un ciclista. Nonostante la scena abbia dell’incredibile, in questo video girato ad Addis Abeba, sia l’uomo che la capra sembrano totalmente a loro agio. In realtà si tratta di una pratica “abbastanza comune” in quella parte di Africa visto il gran numero di video del genere che circolano in rete.

Questi sono vigneti di Merlot, Syrah e Chardonnay, ma non siamo nella campagna italiana o in quella francese. Siamo in Etiopia, a soli 100 miglia a sud della capitale Addis Abeba, dove il colosso transalpino Castel quest'anno ha imbottigliato la sua prima annata di vino prodotto sul posto. "Il nostro obiettivo - racconta il direttore della cantina, Olivier Spillebout - è proprio quello di offrire questo vino agli etiopi, un vino di buona qualità, con un buon prezzo e così via". L'azienda francese punta a vendere la metà della produzione di quest'anno, 1,2 milioni di bottiglie, al mercato interno e l'altra metà a etiopi che vivono all'estero. Ma il governo spera anche che il vino possa migliorare l'immagine dell'Etiopia nel mondo e attirare così più investimenti esteri a sostegno di un'economia che sta già crescendo dell'11 per cento all'anno, uno dei tassi più alti dell'Africa. "Secondo la nostra visione - racconta il ministro dell'Industria Abtew Ahmed - l'Etiopia sarà un centro per l'industria leggera, un punto di riferimento africano per l'industria leggera ad alta intensità di lavoro". Il terreno sabbioso, una stagione delle piogge di breve durata, il basso costo dei terreni e la manodopera abbondante rendono comunque l'Etiopia un luogo ideale per la produzione di vino. E sul fronte delle vendite non sono già mancate le sorprese come quella di un uomo d'affari cinese che si è portato a casa 24.000 bottiglie.

Lunedì, 16 Novembre 2015 13:16

10 cose che non sai sull'Etiopia

Sapevi, per esempio, che in Etiopia ci sono delle zone coperte di neve? No? Bene, ecco altre 10 cose che probabilmente non conosci dell’Etiopia:

  1. L’Etiopia e’ sette anni e mezzo circa dietro di noi. Perché? Perché é l’unico paese ad avere 13 mesi all’anno. Gli etiopi celebrano capodanno a settembre!
  2. Gli etiopi misurano il tempo dal sorgere del sole e contano il tempo nel senso opposto dell’orologio. Quando il sole sorge, alle 6, per gli etiopi é mezzogiorno, e inizia un nuovo giorno!
  3. In Etiopia si parlano più di 80 lingue diverse. 
  4. I bambini etiopi devono imparare sia la lingua della propria tribù sia la lingua ufficiale del paese, l’amarico, e devono anche avere una buona padronanza dell’inglese perché a partire dalla scuola secondaria le lezioni sono tenute esclusivamente in inglese.
  5. Si ritiene che la leggendaria arca dell’alleanza, la reliquia che si dice contenga i dieci comandamenti, si trovi in una chiesa in Etiopia.
  6. Eccetto un breve periodo di occupazione italiana, l’Etiopia è l’unico paese Africano a non essere mai stato colonizzato.
  7. Hai mai sentito parlare di rastafarianesimo? Haile Selassie é stato un imperatore etiope, nato nel 1892, ed é venerato dal movimento rastafari. Da non confondere con il leggendario podista Haile Gebre Selassie!
  8. L’Etiopia é l’unico paese in Africa ad avere un proprio alfabeto.
  9. Il più antico scheletro fossile di un essere umano fu scoperto in Etiopia, e cosi’ anche il caffé. L’Etiopia é dunque la patria del genere umano e della sua bevanda preferita!
  10. L’etiope Abebe Bikila é stato il primo africano a vincere l’oro olimpico. Arrivo’ al primo posto dopo aver corso tutta la maratona scalzo. P

 

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